Alberi, cibo o energia?
10. ottobre 2019
La Stampa - Lo sanno tutti. La migliore strategia per mitigare la crisi climatica – oltre a tagliare le emissioni di gas-serra – è piantare alberi che, per crescere, «mangiano» anidride carbonica dall’atmosfera. Un recente studio, pubblicato su Science a inizio luglio, ha tentato di fare i conti esatti. Secondo i ricercatori nel mondo c’è spazio per altri nove milioni di chilometri quadrati di foreste. Se invece di tagliare boschi cominciassimo a riforestare, 500 miliardi di nuove piante potrebbero immagazzinare ben 205 miliardi di tonnellate di carbonio. Le foreste sono un carbon sink naturale, un deposito di carbonio. Per i destini climatici del pianeta Terra, sarebbe un aiuto determinante.
Facciamo un altro conto. Le terre emerse sono 149 milioni di chilometri quadrati. Tolti i ghiacciai (15 milioni) e le terre aride (28), restano 104 milioni di kmq disponibili. Tolte le città (1,5 milioni di kmq), laghi e corsi d’acqua (1,5), foreste (39), boscaglie (12), restano le cosiddette terre arabili, che arrivano a 51 milioni di chilometri quadrati, un terzo del mondo emerso. Peccato che, secondo alcune stime, queste vadano perse a un ritmo di oltre 100mila kmq l’anno. Un ritmo, peraltro, destinato ad accelerare.
Non è cosa da poco. Prima di tutto perché, con l’aumento della popolazione (due miliardi di persone nel 1927, sette miliardi e mezzo oggi) il conto delle terre arabili procapite è diminuito paurosamente, e diminuirà ancora con i 9 miliardi di esseri umani previsti intorno al 2050. E poi perché l’aumento della desertificazione e del livello degli oceani - entrambi facilitati dai gas-serra in atmosfera - ridurranno ancora il totale delle terre arabili.
Ma se tutti sanno che piantare alberi farà bene alla vita di questo pianeta, è bene capire che la complessità della partita in gioco è enorme. «L’uso diffuso, sulla scala di diversi milioni di chilometri quadrati, di afforestazioni e piantagioni per impieghi energetici potrebbe avere conseguenze potenzialmente irreversibili per la sicurezza alimentare e il degradamento delle terre coltivabili». È quanto si legge in un documento provvisorio dell’Ipcc, il braccio climatologico delle Nazioni Unite, rivelato dal giornale Business Standard. Queste esatte parole potrebbero non trovare posto nella versione finale. Ma il concetto è chiaro: le monoculture estensive, l’uso esagerato di fertilizzanti e le grandi colture di bioenergie (come la canna da zucchero, coltivata in Brasile per farci l’etanolo da miscelare con la benzina) rischiano di aggiungere problemi ai problemi.
«La bioenergia moderna è il gigante dimenticato delle energie rinnovabili», ha detto qualche mese fa Fatih Birol, direttore esecutivo dell’Agenzia Internazionale dell’Energia, perché «rappresenta circa il 50% di tutte le energie rinnovabili. In altre parole, pesa quanto le energie idroelettriche, solari ed eoliche messe insieme». La bioenergia «moderna» include biocarburanti ricavati da materie prime vegetali, bio-raffinerie, biogas ricavato dai residui organici e altre tecnologie. È una buona notizia; ma dato che le terre disponibili non sono infinite solo a metà.
Qui sta il dilemma. Le terre arabili sono destinate a ridursi. Le destiniamo al cibo, all’energia o al ruolo di carbon sink? Un dilemma che raffigura perfettamente il vecchio slogan ecologista: «È l’unica Terra che abbiamo». E che difatti richiederebbe un approccio preveggente, globale e multilaterale, con delle policy internazionali capaci di raddrizzare il rapporto fra la civiltà umana e l’ambiente che la fa sopravvivere.
Certo, piantare alberi aiuterebbe il pianeta. Ma allora perché non smettere anche di deforestarlo (36mila chilometri quadrati di foreste perse nel 2018)? Oppure - visto che il 77% delle terre arabili è destinato a colture per gli allevamenti - perché non rallentare i consumi mondiali di carne? Purtroppo, piantare alberi sarà più facile.