Cosa sono i cambiamenti climatici

07. luglio 2017

I cambiamenti climatici sono la diretta conseguenza del riscaldamento globale. Un approfondimento su tutto quello che c’è da sapere su cause e conseguenze di una delle minacce più gravi del nostro tempo

LIFEGATE - La scoperta del fenomeno del riscaldamento globale risale alla fine del Diciannovesimo secolo quando Svante Arrhenius, chimico e fisico svedese che ha ricevuto il premio Nobel per la chimica nel 1903, illustrò per la prima volta la teoria secondo la quale l’anidride carbonica avrebbe un’incidenza sul clima, causando cioè i cambiamenti climatici. 

Da quel momento in avanti, la consapevolezza che l’umanità ha un’influenza sul clima e causa effetti di natura antropogenica (i cambiamenti climatici) è andata notevolmente crescendo. Nella prima metà del Ventesimo secolo, molti scienziati credevano, forse speravano, che gli oceani sarebbero riusciti nell’impresa di mantenere costante il livello di CO2 in atmosfera, assorbendo gran parte delle emissioni di natura antropogenica.

 

Le prime misurazioni sul vulcano Mauna Loa, alle isole Hawaii

Nel 1957, però, questo assunto è stato messo in discussione dallo studio degli scienziati Roger Revelle e Hans Suess che hanno dimostrato come gli oceani, pur assorbendo la CO2 in eccesso, lo fanno a un ritmo molto più lento di quanto precedentemente previsto e che negli anni si sarebbe potuto verificare un aumento della temperatura media globale. 

La ricerca ha trovato poi conferma durante gli anni Sessanta e Settanta del Novecento quando diversi chimici hanno cominciato a realizzare misurazioni accurate dei gas serra dall’osservatorio sulla vetta del vulcano hawaiano Mauna Loa portandoli ad affermare che la concentrazione dell’anidride carbonica nell’atmosfera stava progressivamente aumentando. Sulla base di questi nuovi dati, la questione è stata portata all’ordine del giorno presso i più importanti convegni scientifici internazionali dove si è cominciato – siamo negli anni Ottanta e le tecnologie iniziano ad essere più avanzate e precise – ad approfondire la questione.

 

Quali sono i gas serra che creano l’effetto serra

Nel giro di poco tempo si scopre che non è solo l’anidride carbonica (CO2, nota anche come diossido di carbonio) a causare il riscaldamento globale, bensì un gruppo di gas quali il metano (CH4), l’ossido di diazoto (N2O), l’ozono (O3) e, in maniera indiretta, il vapore acqueo (H2O). Tutti concorrono a dar vita al cosiddetto “effetto serra”. A questi vanno aggiunti anche gas di derivazione chimica come i CFC, ossia clorofluorocarburi, che però sono stati regolati dal Protocollo di Montréal del 1987 poiché responsabili dell’assottigliamento dello strato di ozono.

Alcuni calcoli pubblicati già nel 1985 dimostravano che tutti questi altri gas messi assieme influiscono sul riscaldamento globale in misura pari alla CO2, rendendo la questione doppiamente seria e problematica rispetto a quanto previsto in precedenza. 

L’effetto serra, però, è un fenomeno naturale che può essere descritto come la capacità dell’atmosfera che circonda il nostro pianeta di assorbire e trattenere entro un certo livello di equilibrio l’umidità e il calore dei raggi del sole. La presenza di questi gas è dunque fondamentale per permettere la vita sulla Terra. Senza i gas serra, cioè senza l’atmosfera terrestre, la temperatura media, infatti, sarebbe intorno ai -18 gradi Celsius mentre l’effetto serra fa sì che la temperatura media globale sia intorno ai 14-15 gradi.

 

Cos’è e quali sono le cause del riscaldamento globale

Il problema del riscaldamento globale, dunque, ha per oggetto un aumento della temperatura media sulla Terra dovuto ad un’eccessiva concentrazione della CO2 e degli altri gas presenti nell’atmosfera a causa di emissioni non più solo di origine naturale, ma anche antropica. I principali responsabili di un incremento globale dell’anidride carbonica sono i combustibili fossili che vengono bruciati senza limiti dall’uomo per produrre energia (responsabile del 75,2 per cento delle emissioni di gas ad effetto serra) utilizzata per soddisfare i consumi di elettricità e riscaldamento (32,6 per cento) e per il settore dei trasporti (14,2 per cento, come automobili ed aeroplani). L’incremento di metano e ossido di diazoto, invece, è principalmente dovuto al settore agricolo (responsabile per il 16,1 per cento).

Anche la deforestazione contribuisce all’aumento di diossido di carbonio nell’atmosfera: le foreste, specialmente quelle tropicali, sono dei veri e propri pozzi che assorbono e trattengono CO2, per questo la loro distruzione, oltre ad impedire il regolare assorbimento, libera nell’aria ulteriore anidride carbonica prima “naturalmente stoccata”. Dall’inizio degli anni Novanta, la deforestazione avrebbe contribuito a un aumento di CO2 pari al 15-25 per cento circa. Se poi si vanno a sommare le emissioni di agricoltura e deforestazione a essa correlata si arriva a coprire circa un quinto (21 per cento) del totale di CO2 emessa in atmosfera nel periodo 2000-2010 (pari a circa 44 miliardi di tonnellate).

 

La storia della concentrazione di CO2 in atmosfera

La concentrazione di CO2 in atmosfera è passata da un valore di 280 parti per milione (ppm, ovvero il rapporto fra il numero di molecole di gas serra e il numero totale di molecole di aria secca. Ad esempio vivere in un mondo a 350 ppm significa che in atmosfera ci sono 350 molecole di gas serra per 1 milione di molecole di aria secca) registrato prima della rivoluzione industriale fino alle 400 ppm del 2017. Il record finora è di 410 ppm stabilito il 18 aprile 2017. Un record frutto di un livello di emissioni di CO2 in atmosfera pari a 41 miliardi di tonnellate, l’anno. 

La crescita è diventata esponenziale negli ultimi decenni. L’Intergovernmental panel on climate change (Ipcc, il Gruppo intergovernativo delle Nazioni Unite che studia i cambiamenti climatici), infatti, è solito utilizzare il 1750 come anno di riferimento per cominciare a studiare i cambiamenti climatici.

Per comprendere cosa significhi vivere in un mondo a 400 ppm basta citare l’intervallo naturale di CO2 degli ultimi 650mila anni che è sempre stato compreso fra 180 e 300 ppm. Il metano, invece, è passato da un valore di 715 ppb (parti per miliardo) registrato nel 1750 a quello attuale che ha sfondato quota 1.880 ppb. L’ossido di diazoto, infine, è passato da 270 ppb a 328 ppb.

Tutto ciò avrebbe già causato un aumento della temperatura media globale superiore a 1 grado secondo l’Organizzazione meteorologica mondiale (Omm), rispetto all’epoca pre-industriale.

Secondo le previsioni, anche se la concentrazione di tutti i gas ad effetto serra dovesse essere mantenuta ai livelli dell’anno 2000, un ulteriore incremento di circa 0,1 gradi al decennio risulterebbe inevitabile vista la lenta risposta degli oceani in termini di assorbimento. Così entro il 2050 la concentrazione di CO2 nell’atmosfera raggiungerebbe livelli doppi a quelli preindustriali (circa 550 ppm). La realtà, purtroppo, è che le emissioni attuali ci porteranno alla soglia delle 550 ppm già nel 2035. 

Per contrastare l’evoluzione catastrofica del fenomeno, sarebbe quantomeno auspicabile che si raggiunga l’obiettivo minimo di non superare le 450 ppm entro il 2050 rispetto al già citato valore attuale di 400 ppm secondo molti scienziati. Questo obiettivo consentirebbe di mantenere l’incremento della temperatura media a 2 gradi secondo quanto previsto dall’Accordo di Parigi sul clima raggiunto nel 2015 nel corso della conferenza sul clima (Cop 21). Va detto che il trattato internazionale chiede alle parti di fare tutto ciò che è nelle loro possibilità “per tentare di non superare gli 1,5 gradi”. Per riuscire in questa impresa, le emissioni globali dovrebbero toccare l’apice entro la fine del decennio per poi scendere di almeno il 5 per cento l’anno, fino a calare dell’80 per cento rispetto agli attuali livelli di emissione entro il 2050. Le promesse di riduzione di gas serra fatte finora dagli stati portano a prevedere, realisticamente, un aumento di temperatura di oltre 3 gradi.

 

Quali sono i cambiamenti climatici

Il fenomeno fin qui descritto porta a delle conseguenze tangibili sull’ecosistema terrestre e sulle popolazioni. Ecco un elenco di quelli che già stiamo vivendo sulla nostra pelle. 

Lo scioglimento dei ghiacci

Le conseguenze più evidenti sono lo scioglimento dei ghiacci, della criosfera, cioè di quella parte della superficie terrestre coperta da acqua allo stato solido come le calotte polari, i ghiacciai presenti sulle montagne e il permafrost (termine che indica quelle zone del pianeta ove il terreno è perennemente ghiacciato). Secondo alcune previsioni, i ghiacci artici potrebbero addirittura essere soggetti a scioglimento completo nei periodi più caldi dell’anno (come in tarda estate) già verso la fine del secolo. La criosfera, ovviamente, ha un ruolo fondamentale nel sistema climatico globale e una variazione della sua estensione può portare a mutamenti sul sistema stesso. Ecosistemi fragili come quelli di mari, montagne e paludi rischieranno di essere definitivamente compromessi.

L’innalzamento del livello dei mari

Una riduzione della calotta glaciale antartica e di quella della Groenlandia ha quasi certamente contribuito a un innalzamento del livello dei mari tra il 1993 e il 2003 di entità pari 3,1 millimetri all’anno secondo l’Ipcc. Ci si aspetta che entro il 2100 l’innalzamento sarà compreso tra i 15 e i 95 centimetri.

L’acidificazione degli oceani

L’aumento di CO2 nell’atmosfera porterà anche a un’acidificazione degli oceani provocando danni irreparabili all’ecosistema marino – ad esempio, alla Grande barriera corallina, inclusa tra i beni protetti dall’Unesco nel 1981 perché ospita “più di 400 tipi di coralli, 1.500 specie di pesce, 4.000 tipi di molluschi. Inoltre è considerata di enorme interesse scientifico poiché è l’habitat di specie a rischio di estinzione come il dugongo e la tartaruga verde”. Una ricchezza che la società di consulenza Deloitte ha quantificato in 56 miliardi di dollari australiani, l’equivalente di circa 37,8 miliardi di euro, e dà lavoro a 64mila persone.

La desertificazione

La desertificazione (e con essa le ondate di calore) si espanderà verso quelle regioni che attualmente godono di un clima temperato come, ad esempio, le aree a nord e a sud del deserto del Sahara, come l’area del mar Mediterraneo (Italia inclusa) provocando gravi danni per l’agricoltura. Le colture subiranno un calo e aumenterà il numero di persone a rischio denutrizione. In particolare, i rendimenti dei campi di mais e di grano potrebbero calare anche del 50 per cento nei prossimi 35 anni per colpa del riscaldamento globale. Un rischio da evitare e prevenire soprattutto ora che le persone che soffrono la fame nel mondo sono in lieve calo. Il rapporto State of food insecurity in the world 2015 realizzato dal Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo (Ifad) e dal World food programme (Wfp) ha calcolato che sono quasi 795 milioni coloro che ancora oggi non mangiano a sufficienza. Erano un miliardo nel biennio 1990-1992. 

Fenomeni come El Niño – ossia una variazione dell’oscillazione meridionale che solitamente si verifica ogni nove anni e che provoca gravi mutamenti del clima quali uragani, tempeste, alluvioni nell’America centrale ma anche periodi di forte siccità spesso legati ad incendi devastanti nella zona del Pacifico occidentale – aumenteranno di quantità e di intensità provocando vittime ed ingenti costi per danni. Tutto questo potrà portare anche alla diffusione di malattie, come la malaria, in zone dove precedentemente erano sconosciute.

La perdita di biodiversità

Non solo per colpa dei cambiamenti climatici, ma sicuramente per colpa degli esseri umani, sulla Terra è in corso un’inarrestabile estinzione di massa, la sesta per la precisione. Questa si traduce in un calo consistente della biodiversità del nostro pianeta. Il tasso di estinzione delle specie terrestri è vertiginoso ed entro la fine del secolo metà delle specie viventi rischia di sparire per sempre. Questo fenomeno avrà “implicazioni gravi e di vasta portata sul benessere umano” secondo John Knox, esperto di diritti umani e professore di diritto internazionale all’università Wake Forest. Knox è anche relatore speciale delle Nazioni Unite sull’ambiente e i diritti umani, oltre che autore del primo rapporto Onu che riconosce come la biodiversità e gli ecosistemi sani siano essenziali per i diritti umani. Come per la desertificazione, la perdita di biodiversità, in particolare la scomparsa delle piante, potrebbe rallentare la lotta alle malattie e aumentare la diffusione di patologie infettive e autoimmuni. 

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